Da una ricerca Upa e Polimi pubblicata sul Sole 24ore risulta che sei su dieci grandi investitori pubblicitari italiani hanno spostato i budget dalle celebrities con decine di milioni di follower verso figure più verticali: in pratica i brand “scaricano” i big influencer per rivolgersi a influencer “minori” ma più di nicchia, più specializzati. Cosa sta succedendo, è davvero la fine degli influencer?
A mio avviso no, solo ci si è resi conto di una cosa importantissima (che dico da anni ai aula e che trovate reiterata in “Condivide et impera #reloaded” da tempi non sospetti) ovvero che il “banale” numero di follower, da solo, non è un valore.
Quello che leggi di seguito è un caso studio datato 2019 ma del tutto attuale: Ariana Renee, nota come Arii, è un’influencer diventata famosa intorno al 2016 grazie a Musicallly, poi fuso con Tik Tok. Il suo successo si è trasferito su Instagram, dove ha 2,6 milioni di follower. Tuttavia, non è riuscita a vendere 36 magliette del suo brand ERA. Ha scritto un post in cui spiegava che, nonostante l’impegno e l’assunzione di fotografi e make-up artist, la compagnia con cui collabora non produrrà la sua collezione a causa dei pochi ordini ricevuti.
Possiamo definirla influencer? No? Ma come no, non ha per caso 2,6 milioni di follower??
Il punto è che se hai milioni di follower che non ti ascoltano, non ti credono, non ti seguono e non si fidano, allora NON sei influente. Essere influenti vuol dire “far accadere qualcosa” ed è questo il motivo per il quale meglio ingaggiare un individuo autorevole su 1.000 persone invece di uno per nulla autorevole su 1.000.000