L’antefatto è semplice e ormai di dominio pubblico: Facebook ha acquistato WhatsApp per 19 miliardi di dollari così distribuiti: contanti (4 miliardi) azioni (12 miliardi) e 3 miliardi in azioni vincolate per dipendenti e fondatori del sistema di messaggistica.
Quattro miliardi di dollari sull’unghia, in ogni caso.
Per avere un’idea della portata dell’operazione basta pensare che Instagram fu comprata, sempre da Facebook, per circa 715 milioni di dollari, Tumblr è stato comprato per circa un miliardo da Yahoo! e, per uscire dal campo dei social, Ducati è stata venduta ad Audi per 860 milioni di euro e Motorola, nel maggio 2012, è stata comprata da Google per circa 12 miliardi di dollari, rivenduta poi il mese scorso a Lenovo per poco meno di 3 miliardi (Google si è tenuta poi i brevetti…).
Queste cifre, questi numeri strabilianti in ambito di “servizi” più che di prodotti a me fanno venire in mente sostanzialmente due cose ovvero che l’unico vero patrimonio oggi sono i “dati” e che siamo sull’orlo di una bolla speculativa enorme.
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Bolla
In giugno 2013 scrivevo un post dal titolo “Puzza di bolla nel mondo dei social network” nel quale cercavo di analizzare il mondo dei social e la pericolosa affinità che questo mondo ha con quello delle dotcom di fine anni ’90.
Una bolla è un bene o un servizio che viene valutato molto di più di quello che potrebbe essere il suo valore di mercato “reale”.
Ci sono state molte bolle nella storia dell’umanità: la più famosa ed eclatante fu la bolla dei tulipani, poi la più recente ovvero la crisi economica dovuta alla bolla speculativa immobiliare USA dalla quale nel 2008 è nata la crisi dentro la quale siamo a piedi pari.
La bolla che più “ci appartiene” da un punto di vista Web, è quella detta delle dotcom, quella cioè che tra la fine degli anni ’90 e i primi 2000 distrusse il mercato della new economy che fino a un attimo prima sembrava la panacea economica assoluta.
Tutti i motivi “tecnici” ed intrinsechi per cui siamo sull’orlo di una bolla li ho descritti nel post che ho citato, ma il punto che vorrei sollevare oggi è prettamente finanziario: è possibile che queste aziende abbiano un valore così sterminato?
Whatsapp ha quasi mezzo miliardo di utenti iscritti e circa il 70% sono attivi TUTTI I GIORNI (ed è questa la vera forza del servizio) quando il blasonatissimo Twitter ha poco meno di 250 milioni di iscritti e molto meno attivi.
Quindi, com’è possibile che anche un servizio come Twitter, che di fatto ha un sistema di business che ancora non lo sostiene, sia stato valutato in borsa sei volte il valore presunto di fatturato dell’anno dopo? Come è possibile avere tanta fiducia in un servizio che, in pratica, non ha trovato un modo di guadagnare?
E questo ci porta al secondo punto.
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Dati
Le cifre che vediamo la sopra, all’inizio del post, denotano qualcosa di evidente: i servizi hanno un valore straordinario, anche se a mio modo di vedere gonfiato, perchè i servizi portano l’unico vero valore oggi considerato dalle multinazionali: dati grezzi.
Identità, gusti, orari di attività, voglie, necessità, spostamenti, reti di amicizie, luoghi frequentati, discussioni, confronti, politica, economia, soldi, amore. Questi sono dati, sono dati grezzi che messi insieme ed analizzati diventano l’enorme patrimonio dei Big Data, l’enorme patrimonio che porta le aziende non solo a sapere chi siamo ma anche cosa vogliamo e cosa saremo.
Il lavoro, la manifattura in quanto tale, deve sottostare a delle regole ormai opprimenti, regole che sono le tasse, i sindacati, gli orari di lavoro, il materiale, le materie prime, le tutele, Tutte cose normali, corrette, ma che strozzano il mondo manifatturiero portandolo a spostarsi in zone dove il lavoro non costa nulla e dove quindi, il lavoro non ha più valore.
Gli oggetti, in questo mondo, non hanno più valore. O almeno questo è quello che si evince da quello che accade. L’unico valore sono i dati.
Mentre in Italia si parla ancora di ripresa industriale, cosa del tutto impossibile in un paese post industriale come il nostro, negli altri Paesi evoluti hanno capito che sapere TUTTO DI TUTTI è più proficuo e produttivo che costruire motori o manubri.
Il Web 3.0, l’ho detto diverse volte, è il confluire di diverse tecnologie verso l’uomo, con l’uomo appunto al centro di tutto: il Web 3.0 è l’uomo con attorno un ecosistema di servizi. In questo modo l’uomo genera dati, costantemente, i quali, opportunamente calcolati, diventano una intelligenza collettiva.
Ecco, da domani Facebook (un’azienda privata americana) avrà accesso alle identità di oltre 2 miliardi di individui su questo pianeta, più di due terzi dell’intera popolazione della Terra, una cosa mai vista prima nella storia dell’uomo e noi, qua in Italia in particolare, stiamo ancora a parlare di ripresa industriale di Paese industrializzato.
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Futuro
La bolla scoppierà e tutto tornerà alle dimensioni, finanziarie, normali. Su questo io non ho dubbi. Ma quello che rimarrà sono anche i dati personali in mano a Facebook, a prescindere dalla bolla.
Quello che dobbiamo capire, tutti quanti, è che il valore vero e supremo siamo noi, ognuno di noi nel suo piccolo è il valore di tutti quei miliardi sborsati da Zuckerberg.
Dobbiamo imparare a rivalutarci e a capire che NOI siamo un valore così come un valore sono gli oggetti che vediamo, che tocchiamo e che usiamo tutti i giorni.
Il domani dovrà essere, se vogliamo stare sereni e vivere agiatamente, un mondo artigianale, permeato dal Web 3.0 ed in cui ognuno dovrà essere consapevole di avere un valore straordinario.
Noi siamo un valore.
Il lavoro è un valore.
I nostri dati sono un valore.
Questo è il mantra.
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