Google sforna servizi come il mio fornaio sforna coppie di pane ferrarese. L’ultimo nato, in ordine cronologico, è Google Helpouts ovvero un servizio di video tutorial, in tempo reale, su piattaforma hangout.
Spiego, per i profani: tu entri nella piattaforma e “chiedi aiuto” su qualcosa, direttamente nella barra di ricerca, su qualunque cosa: medicina, sport, tecnologia, suonare uno strumento, ballare, fare il pane ferrarese.
Nella pagina di risposta hai delle persone che ti potrebbero aiutare, a che ora lo potranno fare e quanto ti costerebbe.
Chiedi, ti viene restituito un listino, scegli, impari, paghi. Semplice. Dall’altra parte, dalla parte di chi istruisce, puoi mettere a frutto le tue esperienze.
Quasi negli stessi giorni Google sta distribuendo i vanity url, ovvero gli url personalizzati per tutti gli utenti di Google Plus. Per capirci, se il mio url di Google Plus adesso è questo https://plus.google.com/103653657756008631357 dovrebbe poi diventare questo https://plus.google.com/+RudyBandiera in maniera automatica. Sta accadendo a tutti. E’ accaduto già quasi a tutti.
Come se non bastasse ecco spuntare Author Rank, ovvero un algoritmo che da un valore alla persona che scrive un contenuto, oltre al contenuto stesso. Come dire, Google sa cosa abbiamo scritto, quanto è piaciuto, e quindi misura in cosa siamo bravi.
Al centro di tutto due cose, l’individuo e la galassia Google Plus.
L’operazione di Google è semplice, potente e lineare: fare si che la gente sia obbligata ad usare il social di Big G. Obbligata non vuol dire con una pistola puntata, ma obbligata pena l’oblio, la non tracciabilità in SERP.
Eric Schmidt, ex-CEO Google, dice che Google+ non è un social network (come ho sempre sostenuto a mia volta, nel mio piccolo) ma “un motore di identità”.
Plus si piazza al centro della galassia di servizi Google, i quali ormai spaziano dalle mappe al search, per arrivare ai Google Glass (che io ho provato eh), ma per lavorare in modo efficace deve sapere chi siamo, cosa scriviamo, quando e con chi ci interfacciamo.
E torniamo sempre li: da quello che produciamo nasce la nostra credibilità. Da come gli altri ci percepiscono nasce la nostra “influence”.
Ma, se tutto questo è bellissimo e senza dubbio affascinante, nascono due problemi non da poco:
1- Google adesso è “dei buoni”. Ma se diventasse “dei cattivi”? Non abbiamo paura che tutta questa mole immensa di dati, tutti questi Big Data appunto, finiscano nelle mani sbagliate oppure che vengano usati per fini diversi da quelli per i quali sono nati?
2- Google è un’azienda privata che basa TUTTO su un algoritmo. E se questo algoritmo sbaglia?
Mi spiego: Google non mi attribuisce l’authorship da circa un anno su questo sito. Da un momento all’altro, senza motivo, senza che i Web Master Tool mi segnalino nulla Google ha smesso di considerare RudyBandiera.com di Rudy Bandiera.
Allo stesso modo Google+ non mi ha ancora attribuito il vanity.
Poco male, dico io, nel senso che non è vitale. Ma se lo diventasse sempre di più? Se io che lavoro con i contenuti fossi tagliato fuori per un bug in un sistema che NON posso controllare ed al quale non posso segnalare nulla?
Sabato mattina sarò a We’re Open 2013 a Cesena e quello di cui parlerò è proprio questo: abbiamo messo in mano e stiamo mettendo in mano ad una azienda privata TUTTO: la nostra credibilità, i nostri dati, il nostro mondo. Non dico che non lo si debba fare, dico solo che si deve essere consapevoli nel farlo.
Capisco molto bene il punto due, soprattutto in considerazione dell’esempio personale che hai riportato. Se Google non considera Ornella Pesenti, poco male; ma Rudy Bandiera che lavora nel e per il 2.0 è piuttosto preoccupante. Bisognerebbe avere (come sempre) anche una persona, inteso come team, dietro l’algoritmo e le esigenze. Sono esigenze mondiali però, quindi presumo che strutturare una cosa di questo tipo non sia semplice.
Non capisco invece, mai giuro, il punto uno. Insomma… Il massimo che possono fare con i miei dati è mandare la chat di Talk al presidente del Club nemico del quale ho parlato male con il mio prefetto! Io mi sento pulita.
@ Ornella Pesenti:
non è questione di pulizia ma di dare un valore alle cose. I nostri dati HANNO un valore. Sono nostri, ed in quanto tali sono un valore notevole. Il fatto che non siano più nostri mi fa paura… un embrione di paura certo, ma me la fa.
@ Rudy Bandiera:
Quindi sostanzialmente io dovrei ricevere cash per i dati che Google incamera su di me? $,$
@ Ornella Pesenti:
no no tu gli dai i dati in cambio dei servizi. Mi sembra solo che l’equilibrio della cosa sia sempre più precario
Caro Rudy, io ho sempre pensato che stessimo concedendo troppo a Google. Cioè, tu capisci cosa vuol dire che una qualsiasi app scaricata da Google Play può conoscere la tua posizione in qualsiasi momento!? Purtroppo, però, hanno anche saputo creare dei bisogni che oggi siamo costretti a soddisfare e non ci resta null’altro che la consapevolezza che se Google diventasse dei “cattivi” saremmo tutti fottuti.
Per quanto riguarda Google+ io lo uso, ma sinceramente lo uso più per dovere che per piacere. Potranno obbligarci ad usarlo quanto gli pare, ma finché non ci stimoleranno a farlo, G+ sarà sempre il fanalino di coda dei social network.